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Memoria e identità personale

Autore: Alfredo Vannacci

“Quando il malato si abituava allo stato di veglia, incominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi d’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e per ultima l’identità delle persone e addirittura la coscienza del proprio essere, fino a sprofondare in una specie di idiozia senza passato.”

Gabriel Garcia Márquez

Cent’anni di solitudine

 

Nel suo capolavoro “Cent’anni di solitudine”, Gabriel Garcia Márquez descrive una bizzarra ‘peste’ che colpisce il villaggio di Macondo, causando una strana forma di insonnia, dapprima in apparenza benigna, ma in realtà in grado di cancellare gradualmente la memoria di chi ne è affetto. Gli abitanti del villaggio dimenticano prima i ricordi personali, poi i nomi degli oggetti di uso comune ed infine anche le loro funzioni. Inizialmente José Arcadio Buendía, il protagonista della prima parte del romanzo, cerca di arginare la peste attaccando delle etichette con i nomi degli oggetti, poi, resosi conto che il nome dell’oggetto diventa solo un termine vuoto una volta dimenticatane la funzione, decide di estendere l’etichetta aggiungendo una descrizione operativa in modo che l’oggetto possa restare fruibile anche in assenza di memoria. Ad esempio, il cartello sulla mucca recita “Questa è la mucca, bisogna mungerla tutte le mattine perché produca il latte e il latte bisogna bollirlo per mescolarlo al caffè e fare il caffellatte”. Purtroppo, anche questo stratagemma risulta inefficace, o quantomeno solo temporaneamente efficace, in quanto vincolato a sua volta alla memoria del linguaggio e della scrittura. Conclude Garcia Màrquez: “Così continuarono a vivere in una realtà che sgusciava via, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio non appena dimenticata la scrittura” (Márquez, 1967).

Se non fosse intervenuto lo zingaro Melquíades come deus ex machina con una medicina in grado di riportare tutti alla condizione precedente la diffusione della peste, gli abitanti di Macondo non avrebbero avuto altra possibilità che perdere “la coscienza del proprio essere, fino a sprofondare in una specie di idiozia senza passato”. La loro stessa identità personale sarebbe cioè secondo Márquez svanita, contestualmente alla sparizione di ogni loro ricordo.

A questa bella descrizione letteraria dello stretto legame tra la nostra memoria e la nostra identità personale fanno eco le riflessioni dei ricercatori che affrontano la questione dal punto di vista delle neuroscienze contemporanee. Si legge infatti in apertura della sezione “Learning and Memory” del trattato “Principles of Neural Sciences” a cura di Eric Kandel che, se non fossimo in grado di usare la memoria, “dimenticheremmo le persone e i luoghi che una volta conoscevamo; non saremmo più in grado di usare e comprendere il linguaggio o eseguire le abilità motorie che avevamo precedentemente imparato; non ricorderemmo i momenti più felici o più tristi della nostra vita e perderemmo persino il nostro senso di identità personale” (Shohamy et al., 2021).

Il legame tra memoria e identità personale è quindi molto stretto, forse inscindibile, e la sua valutazione critica non è certo sfuggita ai filosofi che nei secoli hanno riflettuto sul tema. Sebbene alcuni elementi della questione si possano far risalire ai tempi della filosofia antica (le teorie dell’anima di Platone e Aristotele, l’argomentazione del ‘sorite’ dei sofisti, o la ‘nave di Teseo’ di Plutarco fanno tutte in qualche modo riferimento a questioni simili), si deve arrivare all’età moderna per trovare la riflessione sull’identità personale al centro della agenda dei filosofi, i quali cercano di risolverla in senso razionalista, come Descartes, o in senso empirista come Locke, quest’ultimo forse preceduto dalle riflessioni generali di Thomas Hobbes sui concetti “di identità e differenza” (Hobbes, 1656) [1].

Ma è certamente a John Locke, medico ed empirista inglese, padre del liberalismo politico e precursore dell’illuminismo che dobbiamo fare riferimento se vogliamo parlare di come la memoria ha assunto un ruolo centrale nel concetto di identità personale.

 

Memoria e identità personale in John Locke

Nel suo monumentale testo “An Essay Concerning Human Understanding” Locke affronta numerosi temi relativi al problema della conoscenza umana, quasi sempre in aperta opposizione alla posizione razionalista inaugurata da Descartes. Partendo dalla critica alle idee innate, egli ci presenta infatti un approccio quasi del tutto empirista alle idee, alle sensazioni e riflessioni, alle emozioni ed alla conoscenza umana in generale, ed è in particolare nel II tomo, nel capitolo XXVII ‘Of identity and diversity’ che Locke si occupa di definire in cosa consista a suo parere l’identità personale.

In prima battuta, l’obiettivo del filosofo è inquadrare quella che oggi definiremmo ‘persistenza attraverso il tempo’ degli oggetti (Olson, 2022), definendo l’identità come ciò che fa sì che “quando osserviamo una cosa (qualunque essa sia) noi siamo sicuri che si tratta proprio di quella cosa e non di un’altra […] dato che ciò che ha avuto un unico inizio è la medesima cosa e ciò che ha avuto inizio in un tempo ed in un luogo differente non è la stessa identica cosa, ma una differente” (Locke, 1690; cap XXVII, par 1). Su questa base Locke distingue il principium individuationis degli oggetti inanimati da quello degli esseri viventi (vegetali, animali, esseri umani), cioè di quelle entità costituite da particelle di materia “organizzate in maniera coerente in un corpo e partecipi di una vita comune”[2] (Locke, 1690; cap XXVII, par 4). Tralasciando per motivi di spazio il problematico tentativo di voler conciliare i concetti di anima e di sé (‘self’) tenendoli distinti in un dualismo che a fatica si concilia con l’empirismo del filosofo inglese, Locke identifica una ‘persona’ come “Un essere pensante intelligente, che possiede ragione e riflessione, e può considerarsi come se stesso, cioè la medesima cosa pensante, in tempi e luoghi diversi” (Locke, 1690; cap XXVII, par 9). In questo contesto il sé è definito come “quell’elemento consapevole e pensante […] che ha a che fare con se stesso fino al punto in cui si estende la sua consapevolezza” (Locke, 1690; cap XXVII, par 17). La consapevolezza, l’autocoscienza è quindi per Locke al centro della identità personale: io sono quella persona che sono consapevole di essere e fino a che sono consapevole di esserlo, o, meglio, fino a che mi ricordo di esserne consapevole. Non è quindi la materia, il corpo (‘the substance’) a determinare l’identità personale, quanto l’identità della coscienza, rappresentata per Locke dalla identità della memoria: “supponendo che io abbia perso completamente la memoria di alcune parti della mia vita […] non sarei più la stessa persona che ha compiuto quelle azioni, che ha formulato quei pensieri, dei quali una volta sono stato consapevole” (Locke, 1690; cap XXVII, par 17).

In questi paragrafi Locke da origine a quello che viene definito ‘criterio della memoria’ della identità personale: una persona passata o futura è te, solo se tu sei ora in grado di ricordare un’esperienza che essa ha vissuto, o se essa può ricordare un’esperienza che tu stai ora vivendo (Olson, 2022).

Un così importante credito attribuito alla memoria fu però ben presto criticato, anche duramente, come ad esempio nelle celebri confutazioni del reverendo Butler e di Thomas Reid.

Joseph Butler, in una appendice a “The analogy of religion” si oppone al punto di vista di Locke, sostenendo che l’autoconsapevolezza presuppone l’identità personale e quindi non può esserne il fondamento; egli propone inoltre un approccio secondo il quale la persona è ‘sostanza o proprietà di sostanza’, per cui l’identità personale è in qualche maniera costituita primitivamente e l’uomo ne ha conoscenza immediata. Più che controbattere alle riflessioni di Locke, Butler quindi esprime semplicemente una posizione incompatibile, minimizzando in particolare il ruolo della memoria, ritenuta una facoltà ‘sospetta e fallace’ che può trarci in inganno con ricordi falsi o incompleti e a cui sarebbe ‘ridicolo’ assegnare un ruolo così importante nella genesi della identità personale (Butler, 1736).

Thomas Reid entra invece maggiormente nei dettagli nella sua critica a Locke nel testo “Essays on the Intellectual Powers of Man”. Innanzitutto egli definisce la consapevolezza come conoscenza immediata del presente e la memoria come conoscenza immediata del passato (Reid, 1785a), per poi sottolineare che esse non possono costituire la base della identità personale in quanto la coscienza è ‘passeggera e momentanea, e non possiede una esistenza continua’ e la memoria di aver fatto qualcosa in passato può essere al massimo la prova (‘evidence’) che sono stato io a compiere quella azione, ma non può avere il ‘magico potere’ di generare il suo oggetto, cioè la mia stessa identità che deve necessariamente preesistere nel momento in cui compio una azione che poi ricorderò. Le azioni ed i pensieri, dunque, per Reid cambiano in continuazione, ma il soggetto che le compie e li prova, cioè ‘me stesso’, è permanente e indivisibile, una monade che non ammette gradi. Ciò che può fare la memoria non è quindi determinare la mia identità, ma soltanto costituire una delle possibili prove della mia esistenza al momento della azione che ricordo, la prova più importante, in quanto un ricordo in prima persona (Reid, 1785b).

Un altro elemento fondamentale del rapporto tra memoria e identità è quello della continuità: per entrambi due entità che hanno inizio o fine in tempi e luoghi differenti, non possono essere la medesima entità, tuttavia se Locke accetta il fatto che ricordi diversi costituiscano persone diverse (Locke, 1690, chap. XXVII, par 17), Reid lo ritiene contraddittorio, dal momento che è sicuramente possibile che qualcuno ricordi un episodio della propria infanzia ad un certo punto della sua vita adulta, ma che poi lo dimentichi da anziano, senza che ciò implichi che non sia più la stessa persona (Reid, 1785a, p. 148).

 

Memoria e quasi-memoria

Questo elemento della continuità della memoria, rimasto piuttosto in disparte nel dibattito dei due secoli successivi a Reid[3], tornerà invece protagonista a partire dagli anni ’70 del secolo scorso soprattutto grazie a Derek Parfit. Il filosofo oxoniense affronta per la prima volta questo argomento nel suo articolo del 1971 “Personal Identity” per approfondirlo poi nel libro “Reasons and persons” aiutandosi con una serie di esperimenti mentali, spesso di stampo decisamente fantascientifico. Uno dei più rilevanti per lanciare il tema della memoria è quello del teletrasporto: Parfit immagina un viaggiatore dalla Terra a Marte che entra in un teletrasporto in grado di registrare l’esatta posizione di tutte le microscopiche particelle del suo corpo, smaterializzarlo e trasmettere l’informazione su Marte, dove il corpo del viaggiatore viene ricostituito dopo alcuni minuti a partire da materiale locale, dandogli l’impressione di essere stato inconscio soltanto per un istante (Parfit, 1987, chap. 10). Questo escamotage, che ai lettori dei romanzi di fantascienza in genere sembra essere effettivamente un mezzo di trasporto, ad una più attenta riflessione appare invece grazie alla descrizione di Parfit un processo di distruzione e replicazione. La persona ricostituita su Marte è il medesimo viaggiatore o solo una sua replica? Ciò che li rende identici è la perfetta somiglianza del loro corpo, che include la perfetta somiglianza degli stati mentali e dei ricordi[4]. La persona che si ‘genera’ su Marte ricorda perfettamente la vita della persona che si è disgregata sulla Terra compreso l’istante appena trascorso in cui è entrata nel teletrasporto. Sono o non sono la stessa persona?

La questione si complica aggiungendo l’elemento della biforcazione: nel momento in cui lo scanner a Terra invece di distruggere l’organismo si limita a registrarlo e inviare le informazioni su Marte, abbiamo due copie perfette dello stesso individuo, identiche fino al momento della scansione, che poi si biforcano in due esseri indistinguibili che prendono però strade differenti. Fino a che punto l’originale e la replica sono la stessa persona? E se l’originale muore, la replica può essere considerata una sua forma di sopravvivenza?

Essendo qui il focus sulla memoria, non è possibile seguire le ulteriori evoluzioni dei ragionamenti di Parfit che tendono a sostenere in ultima analisi che ciò che conta per la sopravvivenza non è la continuità né del corpo, né della mente/cervello, quanto piuttosto la ‘R-relation’: la relazione di connessione psicologica (rappresentata fondamentalmente dalla conservazione della memoria) e di continuità psicologica (rappresentata da catene sovrapposte di forti connessioni)[5].

Centrale in questo quadro è il ruolo di quella che Parfit chiama ‘q-memory’, la quasi-memoria.

Fin dai tempi Locke è stato chiaro che i ricordi di una persona sono i ricordi della sua propria esperienza individuale; si possono chiaramente avere ricordi anche relativi ad azioni compiute da altri, ma certamente non in prima persona. I ricordi in prima persona sono ciò che garantisce che quella azione che ricordo è stata compiuta effettivamente da me e non da un altro, e rappresentano un importante tassello nella nostra identità personale. Nel modello di Parfit questo genere di ricordi è centrale in quanto garantisce che ciò che rimane, anche dopo i vari esperimenti mentali di fissione e fusione, sia in una relazione-R di connessione/continuità psicologica con me: gli individui prodotti da questi esperimenti fantascientifici che ricordano ciò che io ho vissuto, non possono essere in senso stretto considerati la mia ‘sopravvivenza’, ma sono qualcosa di ‘altrettanto buono’, posseggono cioè in estrema sintesi ‘what matters’.

Ciò che conta è quindi che dopo di me esistano esperienze R-correlate alle mie esperienze presenti, sia che esse siano in relazione diretta uno-a-uno con me (‘survival’ in senso stretto), sia che non lo siano (‘as good as survival’) (Parfit, 1971, p. 13). Nel caso in cui persista una R-relation, anche una interruzione della identità personale comunemente intesa non sarebbe poi così importante.

È per disegnare questo quadro, che Parfit introduce il concetto di q-memory, intesa come una memoria in prima persona con le seguenti caratteristiche:

  1. mi sembra di ricordare di aver avuto una esperienza;
  2. qualcuno ha effettivamente avuto quella esperienza;
  3. il mio ricordo è casualmente dipendente nel modo corretto da tale esperienza.

Le q-memories sarebbero un livello più alto di ricordi, del quale i nostri ricordi abituali sono una sottoclasse (Parfit, 1987, chap. 10). Tutto ciò che ricordo in prima persona è una q-memory, il sottoinsieme di questi ricordi che riguarda le azioni effettivamente compiute da me rappresenta i ricordi ordinari. Naturalmente in condizioni normali, al di fuori degli esperimenti mentali presentati da Parfit, noi possediamo esclusivamente quel sottotipo di q-memories che sono anche ‘ordinary memories’, cioè quelli relativi ad esperienze effettivamente vissute da noi.

La possibilità (anche solo teorica) di trasferire i quasi-ricordi da un individuo ad un altro, come se fossero dati di un hard disk, come se fossero immagini o filmati scambiati via e-mail tra due computer, è alla base del ragionamento di Parfit ed è stata variamente criticata o difesa negli anni.

Ci limiteremo qui ad esporre quello che ci sembra un problema fondamentale in questa ipotesi di ‘piecemeal memory-trace copying’, cioè che i ricordi non sono semplici copie di percezioni sensoriali: ad ogni ricordo sono associati ricordi secondari, emozioni e stati mentali che non possono essere trasferiti, se non modificando significativamente la mente del ricevente. Come sottolinea Rebecca Roache (la quale tuttavia difende in ultima analisi la sostenibilità delle q-memories), la qualità dei ricordi ipoteticamente trasferiti dipende sia dalla presenza nel donatore di determinati stati mentali associati che il ricevente non ha, sia nella assenza di altri stati mentali che invece sono posseduti dal ricevente, ma non dal donatore (Roache, 2006). Nel caso in cui una persona acquisisse da un donatore una q-memory nel senso in cui la intende Parfit, dovrebbe acquisire anche tutta una serie di stati mentali associati, perdendo contestualmente alcuni dei propri, incompatibili con quelli ricevuti. Non recepire questi elementi secondari causerebbe un impoverimento del ricordo, andando contro la definizione stessa che Parfit da di q-memory: l’unica differenza rispetto ad una ordinary memory è l’identità del soggetto protagonista dell’esperienza, per il resto sono qualitativamente identiche (Parfit, 1971).

 

Individualità e memoria

Rispetto agli anni ’70 del secolo scorso nei quali questo dibattito è iniziato, lo sviluppo delle neuroscienze cognitive ha messo a nostro parere piuttosto in crisi questo genere di esperimenti mentali.

Ognuno di noi infatti è cresciuto in un ambiente diverso, ha sperimentato combinazioni diverse di stimoli e sviluppato abilità motorie in modi e tempi diversi; il cervello di ogni individuo viene modificato in modo univoco durante il suo sviluppo ed ogni esperienza condotta viene memorizzata in maniera più o meno conscia e più o meno profonda. È questa modificazione specifica dell’architettura del cervello apportata dall’apprendimento e dalla memorizzazione che, insieme a un corredo genetico unico, costituisce la base biologica della individualità (Kandel and Le Doux, 2021). È ben noto, ad esempio, che le persone addestrate a svolgere un esercizio raffinato con le dita come i musicisti mostrano un’espansione della corteccia motoria primaria corrispondente, e che tale espansione è tanto più marcata quanto più precoce è stato l’apprendimento. La rappresentazione della mano sinistra nei violinisti è ad esempio maggiore che nei non musicisti e, anche all’interno della categoria stessa dei violinisti, è particolarmente più prominente in coloro che hanno iniziato a suonare prima dei 13 anni di età (Elbert et al., 1995).

Trasferire il ricordo di una melodia suonata da un violinista a un non-violinista come se fosse un pacchetto di dati trasferito da un computer a un altro non potrebbe avere senso per diversi motivi:

  • innanzitutto, andrebbero trasferiti anche tutti i ricordi associati alla melodia, comprese le emozioni provate in quel momento, ad esempio la concentrazione su dettagli che per un musicista sono importanti, mentre per un non musicista sono trascurabili o addirittura non vengono affatto notati;
  • in seconda battuta mancherebbero moltissimi ricordi associati che sono assolutamente necessari per la comprensione del ricordo primario (ad esempio la teoria musicale, la capacità di leggere la musica o meramente la tecnica necessaria per suonare un violino);
  • a questi ricordi secondari ve ne possono essere associati ulteriori terziari (ad esempio suonando un certo brano è possibile ricordarsi dettagli di quando questo è stato imparato), a loro volta collegati a cascata ad ulteriori ricordi, sensazioni ed emozioni associate ad essi;
  • infine, e probabilmente soprattutto, come mostrano le neuroscienze cognitive, i cervelli non sono computer tra loro compatibili da riempire passivamente di dati: tra un individuo ed un altro è anche l’architettonica del cervello ad essere strutturalmente differente. Il cervello di ognuno di noi si è modificato anatomicamente in maniera univoca durante l’apprendimento e la memorizzazione, che sono esperienze necessariamente irripetibili del singolo. Non è quindi solo una questione di dati, e neanche solo di software, è proprio l’hardware che è differente.

 

In conclusione, è possibile dire che da un lato le neuroscienze rinforzano l’importanza della memoria per la nostra identità personale dal momento che dimostrano come l’apprendimento (ed il ricordo di ciò che abbiamo appreso) ci plasmi e ci renda individui unici, portatori di ricordi incarnati, non ospiti di banche dati meramente trasferibili. Ciò che facciamo e ricordiamo di aver fatto modifica noi stessi ed i nostri schemi percettivi, ci rende diversi da come eravamo ieri (letteralmente diversi, in senso anatomico) ed influenza i nostri schemi percettivi per il futuro.

D’altra parte, queste scoperte scientifiche rendono molto più complessa l’ipotesi alla base del riduzionismo psicologico di Parfit mettendo in crisi la plausibilità degli esperimenti mentali di trasferimento dei ricordi. Non è concettualmente possibile trasferire un pezzo della nostra memoria ad un’altra persona e fargliela vivere come se fosse sua[6].

Parafrasando il celebre articolo di Nagel “What is it like to be a bat?” (Nagel, 1974), se riuscissi a trasferire nel mio cervello i ricordi e tutte le sensazioni ad essi associate provate da un pipistrello appeso a testa in giù in una soffitta, non starei comunque scoprendo ‘com’è essere un pipistrello’, ma al massimo come sarebbe per me ricordare in prima persona (‘q-remember’) un’esperienza vissuta da un pipistrello.

 

Un ringraziamento a Francesco Orilia per l’insegnamento e per la discussione degli argomenti qui trattati.

 

Bibliografia

 

Butler, J., 1736. Of personal identity, in: The Analogy of Religion.

Elbert, T., Pantev, C., Wienbruch, C., Rockstroh, B., Taub, E., 1995. Increased Cortical Representation of the Fingers of the Left Hand in String Players. Science 270, 305–307. https://doi.org/10.1126/science.270.5234.305

Häggström, O., 2021. Aspects of Mind Uploading, in: Hofkirchner, W., Kreowski, H.-J. (Eds.), Transhumanism: The Proper Guide to a Posthuman Condition or a Dangerous Idea?, Cognitive Technologies. Springer International Publishing, Cham, pp. 3–20. https://doi.org/10.1007/978-3-030-56546-6_1

Hobbes, T., 1656. Elements of philosophy, the first section, concerning body. London : Printed by R & W Leybourn, for Andrew Crocke, at the Green Dragon in Pauls Church-yard.

Kandel, E.R., Le Doux, J., 2021. Cellular Mechanisms of Implicit Memory Storage and the Biological Basis of Individuality, in: Kandel, E.R., Koester, J., Mack, S., Siegelbaum, S. (Eds.), Principles of Neural Science. McGraw Hill, New York, pp. 1312–1337.

Locke, J., 1690. An Essay Concerning Human Understanding. ed. Bompiani 2007.

Márquez, G.G., 1967. Cent’anni di solitudine. ed. Mondadori 2021.

Nagel, T., 1974. What Is It Like to Be a Bat? The Philosophical Review 83, 435–450.

Olson, E.T., 2022. Personal Identity, in: Zalta, E.N. (Ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy. Metaphysics Research Lab, Stanford University.

Parfit, D., 1987. Reasons and persons. Clarendon Press, Oxford.

Parfit, D., 1971. Personal Identity. The Philosophical Review 80, 3–27.

Reid, T., 1785a. Of Mr. Locke’s Account of Our Personal Identity, in: Essays on the Intellectual Powers of Man.

Reid, T., 1785b. Of Identity, in: Essays on the Intellectual Powers of Man.

Roache, R., 2006. A Defence of Quasi-Memory. Philosophy 81, 323–355.

Shohamy, D., Schacter, D.L., Wagner, A.D., 2021. Learning and Memory, in: Kandel, E.R., Koester, J., Mack, S., Siegelbaum, S. (Eds.), Principles of Neural Science. McGraw Hill, New York.

Van Inwagen, P., 1995. Material beings, Print paperbacks. ed, Cornell paperbacks. Cornell Univ. Pr, Ithaca, NY.

[1] Ad Hobbes si deve anche la versione moderna del paradosso della Nave di Teseo; secondo la versione originale, in ogni porto viene sostituita un’asse della nave di modo che dopo anni, seppure senza alcuna interruzione della sua attività, essa non è più costituita neanche da una delle assi di partenza. Si tratta della stessa nave o di una nuova? Hobbes introduce quella che oggi si chiamerebbe una biforcazione (si veda più avanti il paradosso del teletrasporto di Parfit): se qualcuno raccoglie dai porti le assi originali e le riassembla piano piano in forma di nave, quale delle due è propriamente la Nave di Teseo? Quella che ha continuato ininterrottamente a navigare sotto la guida di Teseo, ma non contiene più neanche un pezzo della nave di partenza, o quella che è stata ricostituita con i consunti pezzi originali, ma in questa forma non ha mai solcato i mari?

[2] Tre secoli più tardi una risposta analoga, anche se ben più articolata, sarà data da Peter Van Inwagen in “Material Beings” a quella che egli chiama ‘la domanda sulla composizione speciale’. Secondo questo approccio, ciò che esiste nel più stretto senso ontologico sono soltanto le particelle elementari della materia e quelle entità mereologiche complesse che sono organizzate in modo da costituire una “vita” (Van Inwagen, 1995).

[3] Il dibattito sulla identità personale certamente non si è fermato in quegli anni, ed anzi ha preso grande slancio grazie a Hume, Leibniz e naturalmente Kant, per poi tornare verso le sue origini empiriste con Russell, ma l’argomento della memoria non è stato più così centrale.

[4] Questo naturalmente secondo il modello riduzionista di Parfit; un dualista dell’anima potrebbe obiettare che un’anima immateriale non può essere trasferita e quindi ciò che viene ricostituito su Marte è solo un cadavere, o al massimo uno zombie.

[5] A partire dalla riflessione sulla identità personale, la filosofia di Parfit nella seconda parte di “Reasons and Persons” e nei tre corposi volumi di “On What Matters” si concentra soprattutto su tematiche etiche e sociali, con particolare riferimento al sostegno dei principi di ‘altruismo efficace’.

[6] In linea teorica questa obiezione non si applica però al concetto di ‘mind uploading’ cioè alla ipotetica futura tecnologia di trasferimento delle menti umane all’hardware di un computer, che funzioni emulando esattamente il cervello del donatore. Naturalmente in questo caso si aprirebbero questioni filosofiche di grande portata, cioè se tale struttura mantiene o no l’identità personale di partenza, se è dotata di autocoscienza, nonché naturalmente numerose questioni di tipo etico (Häggström, 2021).

 

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