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Fare cose con le parole. Una concezione pragmatica del linguaggio.

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Autore: Alfredo Vannacci

Comunicare: il modello del codice

Storicamente, l’approccio prevalente in linguistica e filosofia del linguaggio ha per lo più considerato che la funzione principale dei linguaggi fosse quella di descrivere la realtà, di rappresentare stati di cose. Per questa ragione, il modello che fin dai tempi antichi è stato utilizzato per concepire la comunicazione è stato quello del codice, secondo cui la comunicazione consiste nella codifica e decodifica di messaggi.

Tale modello compare per la prima volta nel De Interpretatione di Aristotele ed è stato successivamente elaborato in epoca medievale e soprattutto moderna (ad esempio da John Locke) fino a fissare la concezione standard del linguaggio che è arrivata fino all’epoca contemporanea: le parole stanno per idee (intese come stati mentali dotati di contenuto), le idee di un individuo sono inaccessibili agli altri individui, ma una persona può comunicare i propri pensieri per mezzo di suoni (Bianchi, 2009). Tale modello concepisce in fondo la comunicazione come una sorta di duplicazione di pensieri dal parlante al destinatario e presuppone la possibilità di raggiungere una perfetta simmetria tra meccanismo di immissione e meccanismo di emissione del messaggio. Le parole permetterebbero dunque ad un parlante di rendere i propri pensieri accessibili agli altri, sfruttando la condivisione di un codice preventivamente messo in comune e con l’obiettivo di garantire al termine del processo l’identità di rappresentazioni mentali tra chi parla e chi ascolta.

Collegata a questo punto di vista è la visione prevalente fin dagli albori della filosofia analitica che il significato di una proposizione sia legato alle sue condizioni di verità, cioè al fatto che l’enunciato proferito corrisponda o meno ad uno stato di cose sussistente nel mondo attuale, che possa farsi carico della funzione di truthmaker (Bianchi, 2003).

Tale modello ha avuto grande fortuna fino a metà del secolo scorso, anche grazie alla grande importanza che si è sempre data ai due campi principali della linguistica:

  • la sintassi, cioè la disciplina che studia il rapporto dei segni con altri segni,
  • la semantica, cioè la disciplina che studia il rapporto dei segni con gli oggetti.

Tale impostazione nel campo della semiotica si deve soprattutto a Peirce, di fatto inventore della disciplina, che ha formalizzato numerosi concetti divenuti poi classici come quello di ‘triangolo semiotico’ (idea, segno, cosa) o la distinzione tra types e tokens (Penco, 2004).

Più o meno nello stesso periodo si è anche realizzata la rivoluzione di Frege nel campo della logica, che ha investito in maniera importante la filosofia del linguaggio, in particolare introducendo la distinzione tra senso e riferimento e soprattutto l’utilizzo dei quantificatori universale ed esistenziale (Frege, 1892). In tale quadro di fermento culturale, la sintassi e la semantica si sono affermate come elementi fondamentali per la interpretazione della comunicazione umana, soprattutto grazie alla strutturazione dei paradigmi peirciani e fregeani da parte degli esponenti dell’empirismo logico e del neopositivismo, soprattutto Rudolf Carnap, che hanno reso di fatto il modello del codice l’approccio standard nella filosofia del linguaggio nella prima metà del ‘900.

Successivamente però l’attenzione degli studiosi si è focalizzata anche sul terzo campo che caratterizza la comunicazione umana:

  • la pragmatica, cioè la disciplina che studia l’uso dei segni in un contesto da parte dei parlanti.

Il cambio di paradigma in tal senso è stato preparato da una serie di nuovi approcci alla linguistica, che hanno dato minore importanza all’aspetto semiotico della comunicazione, togliendo dal piedistallo i concetti di segno, codice e vocabolo e dando invece grande importanza allo sviluppo storico e sociologico delle lingue (come nel caso di Ferdinand de Saussure), ma anche alla neonata linguistica generativa, protagonista della cosiddetta ‘rivoluzione chomskiana’. L’approccio di Noam Chomsky ha messo infatti al centro del panorama linguistico la facoltà del linguaggio, intesa come capacità mentale innata dell’individuo che, tramite un sistema sintattico basato su un numero finito di regole, riesce a generare un numero di frasi potenzialmente infinito (Penco, 2004).

Senza perdere di vista il ruolo fondamentale che semiotica, sintassi e semantica ricoprono nel mondo dello studio del linguaggio, si era creato a metà del secolo scorso un ambiente intellettuale tale da poter rivalutare anche il ruolo della pragmatica dando, come vedremo, particolare importanza al contesto ed alle intenzioni comunicative del parlante.

 

Comunicare: il modello inferenziale

Al modello del codice si contrappone dunque il modello dell’inferenza induttiva, con il quale si sostiene che la rappresentazione semantica (cioè il contenuto) di una frase esposta con una modalità sintatticamente corretta non sempre coincida con il pensiero di cui il parlante si vuole fare portatore. Duplicare meccanicamente i contenuti mentali di un parlante in un destinatario, passando attraverso dei segni o dei vocaboli conservati in un codice condiviso e trasmessi mediante regole sintattiche perfettamente rispettate, non è infatti sufficiente a garantire una corretta interpretazione del messaggio. Secondo questo modello, è infatti anche necessario che il destinatario riconosca le intenzioni comunicative del parlante.

Con questo modello si entra dunque a pieno titolo nel mondo della pragmatica e si sostiene che molto spesso sia pressoché impossibile decifrare la comunicazione tra due persone senza tenere conto del contesto nel quale il messaggio è stato emesso e ricevuto. In un certo senso, il modello inferenziale serve per capire quanto nell’interpretazione di un enunciato sia da attribuire alla nostra conoscenza e al nostro linguaggio e quanto invece alla nostra conoscenza dell’ambiente in cui la conversazione si svolge (Bianchi, 2003).

Se il modello del codice ha una storia millenaria, il modello inferenziale ha meno di un secolo di vita e deve la sua prima formulazione al lavoro del filosofo britannico Paul Grice, il quale iniziò a delinearlo nel suo saggio ‘Meaning’ del 1957 (Grandy & Warner, 2022).

Secondo questo modello, la comunicazione tramite un linguaggio non sarebbe un mero scambio di informazioni codificate, quanto piuttosto un vero e proprio processo di inferenza induttiva o, più precisamente, abduttiva[1]. Molto brevemente, una inferenza induttiva è un ragionamento con il quale da premesse vere non si giunge necessariamente a conclusioni vere, ma soltanto più o meno probabili. Nel ragionamento abduttivo (noto in epistemologia anche come ‘inference to the best explanation’) il concetto di probabilità assume ancora maggiore importanza; tale processo è stato descritto nel secolo scorso da Peirce e la sua idea centrale è che le premesse siano una guida all’inferenza. Si tratta una situazione comune nella scienza: le ipotesi sono supportate dalle stesse osservazioni che dovrebbero spiegare e gli scienziati risalgono proprio dalle prove disponibili all’ipotesi che, se corretta, spiegherebbe meglio tale evidenza (Lipton, 2008). Di fronte a una serie di possibili spiegazioni, viene dunque scelta quella che con maggiore probabilità spiega la situazione di partenza.[2]

Le inferenze abduttive, oltre ad essere di fondamentale importanza nella ricerca scientifica, sono costantemente all’opera nei processi cognitivi e ci consentono di trarre conclusioni operative a partire da stimoli percettivi di vario genere. Si tratta in gran parte di processi informali, spontanei e inconsci, non di veri e propri ragionamenti logici condotti con consapevolezza, ma stanno di fatto alla base della grande maggioranza delle nostre azioni quotidiane, in particolare di quelle che hanno a che fare con la trasmissione delle informazioni (Bianchi, 2003).

Secondo la concezione griceana, comunicare significa quindi esprimere intenzioni, o stati mentali, da parte di chi parla e, per chi ascolta, riconoscere intenzioni e stati mentali, cercando di inferire tramite la migliore spiegazione possibile a seconda del contesto, quali fossero le intenzioni del parlante. Comunicare significa in un certo senso leggere la mente del nostro interlocutore (Bianchi, 2009). Gli stati mentali di un soggetto non possono dunque essere semplicemente percepiti o decodificati, ma devono essere inferiti dal comportamento del parlante, tramite una serie di indizi, tra i quali la semantica e la sintattica delle lingua parlata sono certamente importanti, ma che non si esauriscono in essi.

Vediamo come questo modello inferenziale induttivo della comunicazione si intreccia con la concezione pragmatica del linguaggio.

 

Fare cose con le parole

“How to do Things with Words” è il titolo di una celebre opera del filosofo oxoniense John Austin, pubblicata postuma nel 1962 e basata su una serie di lezioni tenute ad Harvard nel 1955 (Austin, 1962). Secondo l’approccio di Austin, poi sviluppato e perfezionato a Berkley dal suo allievo John Searle, gli enunciati dichiarativi si possono dividere in:

  • enunciati constativi, il cui obbiettivo è quello di descrivere stati di cose del mondo e che hanno tipicamente un valore di verità (sono gli enunciati di cui già si occupava la filosofia del linguaggio);
  • enunciati performativi, che non descrivono stati di cose, non sono informativi e non hanno un valore di verità.

Gli enunciati performativi sono tipicamente emessi con l’intenzione di compiere atti; non possono essere quindi veri o falsi, ma possono avere al massimo condizioni di infelicità, possono cioè fallire nel loro intento. La felicità degli enunciati performativi dipende fortemente dal contesto: emettere le parole è l’elemento dominante nell’esecuzione dell’enunciato performativo, ma non è l’unica cosa necessaria affinché l’atto sia considerato eseguito. Infatti è sempre necessario che le circostanze in cui vengono pronunciate le parole siano appropriate ed è spesso necessario che il parlante o altre persone eseguano anche altre azioni fisiche o mentali perché l’esito dell’enunciato performativo possa essere considerato ‘felice’ (Austin, 1962).

Austin descrive diverse situazioni nelle quali un enunciato performativo può cadere in una condizione di infelicità:

  1. l’atto può fallire, essere cioè nullo
    1. la procedura invocata deve esistere ed essere convenzionalmente accettata: ci si può sposare con una persona pronunciando ‘lo voglio’ durante la cerimonia, perché esiste l’istituzione del matrimonio ed è normata in tal senso, mentre invece pronunciare la frase ‘io divorzio’ non ha effetto perché non esiste una procedura analoga;
    2. le persone e le circostanze devono essere adeguate: pronunciare un voto nuziale al di fuori della cerimonia del matrimonio e/o in assenza dell’officiante non ha alcun effetto;
  2. vi sono difetti nella procedura
    1. la procedura deve essere eseguita correttamente;
    2. la procedura deve essere eseguita completamente;
  3. vi sono abusi, infrazioni o insincerità
    1. La procedura convenzionale è viziata o vuota se viene usata senza avere i pensieri, i sentimenti e le intenzioni richieste dalla procedura stessa: fare una promessa senza avere l’intenzione di mantenerla non è in effetti ‘fare una promessa’, ma solo mentire;
    2. infine, la procedura è viziata o vuota anche nel caso in cui partecipanti non si comportino in seguito in modo conforme all’atto eseguito: ad esempio contrarre un debito e rifiutarsi poi di onorarlo.

 

La forza illocutoria

È possibile a proposito di ogni tipo di enunciato tracciare una distinzione sistematica tra quelli che Austin chiama atto locutorio, atto illocutorio e atto perlocutorio (Austin, 1962).

  • L’atto locutorio corrisponde al fatto di dire qualcosa, al proferimento di una espressione ben formata sintatticamente e dotata di significato, oggetto di studio da parte di sintassi e semantica. L’atto locutorio, inteso come espressione dichiarativa, ha un valore di verità che dipende dagli stati di cose del mondo.
  • L’atto illocutorio corrisponde alla azione che viene effettivamente compiuta nel dire qualcosa, ciò che facciamo preferendo un enunciato. La forza illocutoria di questi atti rappresenta l’azione che corrisponde all’enunciato: può essere una affermazione, un ordine, una minaccia, una promessa etc…
  • L’atto perlocutorio corrisponde agli effetti ottenuti dall’atto illocutorio, cioè alle conseguenze psicologiche e/o comportamentali dell’atto stesso (ad esempio, se a seguito di un ordine, l’atto ordinato viene effettivamente compiuto).

Searle ha ulteriormente perfezionato questo approccio identificando cinque tipi di forze illocutorie, che corrispondono a cinque tipi di atti che si possono compiere con le parole:

  1. Rappresentativi: sono gli atti assertivi, con i quali affermiamo le nostre credenze sul mondo.
  2. Dichiarativi: con i quali modifichiamo gli stati di cose del mondo (“io vi sposo”, “io ti arresto”, “io ti condanno”)
  3. Espressivi: con i quali esprimiamo i nostri stati psicologici interni (“Ti chiedo scusa”, “Ti faccio le mie congratulazioni”)
  4. Direttivi: con i quali cerchiamo di far fare (o non fare) agli altri qualche cosa (“Apri la porta!”, “Vietato fumare”)
  5. Commissivi: con i quali ci impegniamo a fare (o non fare) qualcosa (“Ti prometto che lo farò”, “Ci penso io!”, “Mi tiro indietro”)

 

Il principio di cooperazione e le implicature conversazionali

Nel passaggio dunque dal predominio della semantica a quello della pragmatica, con un processo che è stato definito una ‘battaglia omerica’ tra i filosofi del linguaggio ideale (come Frege; Russel, Carnap e il primo Wittgenstein) ed i filosofi del linguaggio ordinario (come il secondo Wittgenstein, Austin e Strawson), si poneva la necessità di trovare un punto di incontro tra formalismo e non formalismo, tra ciò che è detto esplicitamente ed è quindi conseguenza logica e ciò che è detto implicitamente e può soltanto essere inferito per induzione (Bianchi, 2009).

In questo non semplice contesto, Grice fu il primo a notare l’importanza nel linguaggio di quelle che ha chiamato ‘implicature conversazionali’, fornendone una interpretazione filosofica e formulando il cosiddetto principio di cooperazione: “Conforma il tuo contributo conversazionale, nel momento in cui avviene, a quanto è richiesto dall’intento comune o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato” (Grandy & Warner, 2022).

L’importanza del ruolo della pragmatica e del contesto diventa massima nel caso delle implicature conversazionali: esse riguardano infatti ciò che un ascoltatore può capire dal modo in cui qualcosa è stato detto piuttosto che da ciò che è stato detto. Come sostenuto dal modello inferenziale, le persone elaborano continuamente ed inconsciamente implicature conversazionali e questo processo sta al centro della comunicazione tanto quanto (se non maggiormente di) semantica e sintassi. Ad esempio, se qualcuno chiede “Potresti chiudere la porta?” l’ascoltatore di solito non interpreta la domanda come un semplice atto locutorio, rispondendo “Sì”, ma riconosce l’atto illocutorio di aver fatto una richiesta e compie l’atto perlocutorio di chiudere la porta. In definitiva, sebbene il parlante abbia usato una costruzione che è letteralmente una domanda riguardo le sue capacità, l’ascoltatore inferisce facilmente che egli sta in realtà facendo la richiesta di una azione.

Secondo Grice, tali implicature si fondano sull’esistenza (e spesso sulla apparente violazione) di alcune massime conversazionali. Secondo il principio di cooperazione, infatti, la comunicazione riesce ad andare in porto proprio perché gli interlocutori danno per scontato che tutti si stiano attenendo ad una serie di massime implicite, le quali consentono di interpretare correttamente quanto viene detto. Quando una o più massime sembrano platealmente violate, piuttosto che concludere che il parlante abbia abbandonato l’idea di comunicare in maniera cooperativa (e rispondere qualcosa tipo “Certo che posso chiudere la porta, che razza di domanda è?”), l’ascoltatore ne inferisce inconsciamente che egli stia implicando qualcos’altro e che voglia comunicare un messaggio diverso da quello che emerge letteralmente dall’enunciato emesso.

Vediamo infine quali sono le massime conversazionali secondo Grice e cosa implica la loro violazione:

  • Quantità: “Dai un contributo tanto informativo quanto richiesto e non più informativo di quanto richiesto”. Nelle implicature la massima può essere violata sia in una direzione che nell’altra, ad esempio “La guerra è guerra” è letteralmente una tautologia che non apporta alcuna informazione esplicita, ma implica una serie di informazioni che il ricevente associa cognitivamente al concetto di ‘guerra’ attingendo al proprio vocabolario mentale (es: violenza, violazione dei diritti umani, vittime civili, etc…). Parallelamente, a volte si possono dare informazioni apparentemente ridondanti, ad esempio “Si è giocato il derby cittadino, non ci sono stati incidenti allo stadio”: in genere non si comunica ciò che non avviene, a meno che come in questo caso non si voglia implicitamente comunicare che ci si attendeva che sarebbe avvenuto.
  • Qualità: “Dai un contributo che sia vero”. La sua violazione si osserva nel caso di alcune figure retoriche come ad esempio l’iperbole (“È un secolo che non ci vediamo”, “È una vita che ti aspetto”) o la metafora (“Sei una lumaca!”, “Quell’uomo è una vecchia volpe”) con le quali non si intende evidentemente comunicare il significato letterale degli enunciati, ma far inferire delle caratteristiche particolari del soggetto di cui si parla (lento come una lumaca, furbo come una volpe) o rinforzare il senso di una percezione (è passato talmente tanto tempo che mi sembra un secolo, o una vita intera).
  • Relazione: “Sii pertinente”. Questa massima sembra violata ogni volta che una risposta sembra fuori luogo, ad esempio la risposta “Devo consegnare un lavoro importante” alla domanda “Andiamo al mare domani?” è letteralmente un cambio di argomento, quindi non pertinente, ma lascia facilmente inferire la più diretta “No, non posso”.
  • Modo: “Non essere oscuro, ambiguo, disordinato o prolisso”. A volte le informazioni vengono veicolate in modo volutamente non chiaro per far inferire qualcosa che va al di là della lettera dell’enunciato. Ad esempio, la risposta “Sono andato a lavorare” alla domanda “Cosa hai fatto stamattina?”, espressa col modo “Mi sono svegliato, sono sceso dal letto, mi sono lavato, vestito, ho fatto colazione, sono uscito di casa e sono andato a lavorare”[3] appare francamente ridondante, a meno che non si voglia comunicare implicitamente qualcosa che può emergere solo dal contesto (ad esempio “E tu non ti sei accorta di niente!”).

 

Per concludere, nella panoramica attuale della filosofia analitica in cui le riflessioni sul funzionamento della mente si intrecciano con i dati provenienti dall’esperienza empirica, dalle scoperte scientifiche e soprattutto dai progressi delle neuroscienze, un approccio basato sulla pragmatica cognitiva ci sembra essere probabilmente il più adeguato per decifrare quello strano codice che è rappresentato dal linguaggio umano.

Questo tipo di approccio ovviamente non esclude, ma casomai presuppone, sia la sintassi che la semantica. Ma le parole da sole non bastano, o quantomeno ci lasciano nel dubbio (Bianchi, 2009).

 

Un ringraziamento a Francesco Orilia per l’insegnamento e per la discussione degli argomenti qui trattati.

 

Riferimenti bibliografici

 

Austin, J. L. (1962). Come fare cose con le parole (M. Sbisà & C. Penco, A c. Di). Marietti 2019.

Bianchi, Claudia. (2003). Pragmatica del linguaggio. Laterza.

Bianchi, Claudia. (2009). Pragmatica cognitiva: I meccanismi della comunicazione. Laterza.

Frege, G. (1892). Senso e significato. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, & M. Santambrogio, Filosofia del Linguaggio (pagg. 15–43). Raffaello Cortina 2003.

Grandy, R. E., & Warner, R. (2022). Paul Grice. In E. N. Zalta & U. Nodelman (A c. Di), The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2022). Metaphysics Research Lab, Stanford University. https://plato.stanford.edu/archives/fall2022/entries/grice/

Lipton, P. (2008). Inference to the Best Explanation. In M. Curd & S. Psillos, The Routledge Companion to  Philosophy of Science. Routledge.

Penco, Carlo. (2004). Introduzione alla filosofia del linguaggio. Laterza.

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[1] In un certo senso anche il modello del codice prevede una inferenza, cioè un processo che da un certo tipo di premesse consente di trarre delle conseguenze, solo che sembra più basarsi su un approccio di tipo deduttivo: se io conosco il significato dei segni (semantica come premessa vera) e le regole di costruzione (sintassi come premessa vera) posso deduttivamente decodificare il messaggio in forma corretta (messaggio come conclusione vera di un sillogismo valido).

[2] L’esempio classico di Grice è che quando un medico osserva delle macchie rosse sulla cute di un malato può ipotizzare che esse siano indice di una malattia esantematica, come ad esempio morbillo o rosolia, ma non può saperlo con certezza. Trovarsi ad esempio nel bel mezzo di una epidemia di rosolia aumenta la probabilità che questa sia la migliore spiegazione del sintomo presentato (Grandy & Warner, 2022).

[3] Esiste una oggettiva sovrapposizione tra la violazione per eccesso della massima della quantità e di quella del modo: molto spesso nel dare informazioni in modo prolisso, si fornisce in definitiva anche un numero di informazioni quantitativamente maggiore.

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